C’è una parola in svedese che serve a descrivere il rapporto con il mondo di questo popolo: lagom.
E’ un aggettivo che si traduce difficilmente in italiano, forse perché il concetto che sottintende è estraneo alla nostra cultura, infatti ha a che vedere con ciò che è sufficiente, che ha la giusta misura, che è appropriato. Si dice che derivi da un antica abitudine dei vichinghi che nelle pause di lavoro si passavano un corno di sidro da cui ognuno beveva per dissetarsi, nutrirsi e recuperare energia. Nel compiere questo semplice gesto ognuno teneva conto degli stessi bisogni degli altri e per questo beveva solo il necessario e non una goccia in più.
Un modo di vivere improntato sul lagom si traduce con il valore per l’equilibrio e la ricerca dell’ottimale media tra gli opposti. Significa che nel vivere la propria vita di tutti i giorni, si prendono in considerazione allo stesso modo i propri bisogni e quelli delle altre persone. E’ l’equilibrio tra lo spazio personale e lo spazio collettivo. Combinare al meglio due esigenze in apparenza contraddittorie come noi stessi e gli altri è alla base del concetto di squadra e di coralità. L’esercizio della coralità consiste nel dare qualcosa di se, lasciando il segno della propria presenza, e prendere qualcosa dagli altri, portare dentro di se qualcosa di estraneo da noi. Per farlo bisogna avere dei confini individuali adeguatamente sviluppati: non troppo rigidi da non far passare niente ma nemmeno troppo lassi che lascino entrare o uscire ogni cosa. Gestire i propri spazi e stare allo stesso tempo bene con gli altri senza rinunciare a se stessi è una cosa che si impara. Le regole familiari prima e sociali poi servono proprio a questo.
Quando l’equilibrio è presente si sviluppa nel cittadino un rapporto capace di garantire un senso di appartenenza senza sottomissione o dominio. Quando invece manca, il senso di frustrazione e ingiustizia sociale, insieme ad un eccessivo individualismo, la fanno da padroni.
Noi italiani siamo eccessivi in tutto, nel bene e nel male, è la nostra forza ma anche la nostra dannazione.
Eppure i nostri antenati ce lo insegnavano “Est modus in rebus”, pare che ce lo siamo dimenticati.